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Google, con una decisione che ha scatenato pesantissime discussioni in rete, ha deciso di cancellare dal suo store tutte le applicazioni che servono a bloccare la pubblicità. La casa di Mountain View ha dichiarato ufficialmente che questo stop è dovuto al mancato rispetto del regolamento da parte degli sviluppatori di queste applicazioni.

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In effetti pare un po’ strano che decine e decine di sviluppatori diversi, anzi concorrenti tra di loro, abbiano deciso tutti insieme il regolamento che Google ha stabilito per poter distribuire le proprie applicazioni. E’ evidente, dunque, che si tratta di una mossa tesa a garantire a chi vive di pubblicità online la possibilità di guadagnare. Non si tratta di beneficienza, ovviamente, visto che questo mercato è dominato, con tecniche che vanno al di là dell’abuso di posizione dominante, da Google stesso. In ogni caso viene spontaneo fare due considerazioni di carattere generale.

I servizi web e mobile costano e qualcuno deve pagare il conto

E’ un tema che abbiamo già affrontato su Social2Tech in numerosi articoli: i servizi web costano. Ci sono costi per lo sviluppo (i programmatori che ci lavorano devono essere pagati), per i server, per le tasse, per la banda consumata. E qualcuno alla fine deve pagare il conto. Alcuni servizi sono a pagamento, ma nel caso dei servizi gratuiti questo conto lo pagano gli inserzionisti pubblicitari. E se troppi utenti bloccassero la pubblicità molti servizi e siti che adesso sono gratis dovrebbero chiudere o diventare a pagamento. Non ci sono terze opzioni, come si dice in logica tertium non datur.

Il rischio degli App Store

Negli ultimi anni va molto di moda il concetto di App Store, luoghi virtuali in cui gli sviluppatori caricano le applicazioni che vogliono distribuire e gli utenti le scelgono e le installano in modo semplice sui loro dispositivi. Un modello vincente, apparentemente giusto, ma in realtà pericolossimo. Perché il padrone di casa ha la possibilità di decidere cosa può essere distribuito e la facoltà di cancellare, in un momento, applicazioni e classi di applicazioni. Di fatto un web basato sugli App Store ( di qualunque marca e bandiera) è meno libero di un ecosistema in cui tutti sviluppano, distribuiscano e installano quello che meglio credono, lasciando a ognuno la facoltà di scelta.

chiude google reader

Google ha annunciato che a partire da luglio di quest’anno chiuderà il suo servizio gratuito Google Reader che consente (ancora per poco) di leggere i feed RSS dei blog preferiti. Per gli utenti più giovani di internet questo può sembrare arabo visto che ormai la funzione che un tempo veniva svolta dai lettori di feed RSS è svolta sostanzialmente dai social network.

chiude google reader

Un feed RSS è un flusso di dati, messo a disposizione pubblicamente, che contiene tutti gli aggiornamenti di un blog. Un utente, grazie ad un lettore di feed, può quindi essere aggiornato sui nuovi post dei blog che segue senza doverli andare a controllare con i browser. Questa funzione è oggi, di fatto, realizzata tramite i social network. La maggior parte degli utenti interessati ad un blog o ad un sito si iscrivono alla pagina Facebook del sito stesso e ricevono tramite il popolare social network gli aggiornamenti. Oppure lo fanno tramite Twitter o altri servizi social.

Google Reader è stato un grande progetto, venuto fuori da quella fucina di idee che è stata Google Lab ai tempi in cui l’azienda di Moutain View non era un moloch monopolistico ma un soggetto nuovo, pieno di idee innovative e orientato a soddisfare le esigenze degli utenti. Era una strategia commerciale, visto che Google è sempre stata un’azienda e non un ente no profit, ma comunque gli utenti ne traevano benefici.

Perché chiude Google Reader?

La chiusura di Google Reader ha suscitato parecchie proteste perché gli utenti, sebbene in calo, sono ancora moltissimi. In questo caso è evidente che la concorrenza dei social network è fortissima, come detto poco sopra la maggior parte delle persone preferisce seguire i propri siti preferiti tramite social. E Google ha un suo social, il famigerato Google+, che sta cercando di spingere in tutti i modi. Non solo costringendo i webmaster a iscriversi forzatamente, tramite il meccanismo dell’autorship, ma anche facendo convergere tutti i propri servizi web sul nuovo social.

Ci provò con Youtube ma le proteste degli utenti furono talmente veementi che a Moutnain View dovettero improvvisare una ritirata strategica. Nel caso di Google Reader, invece, il progetto riuscì: imposero, di fatto, che la condivisione dei contenuti, apprezzatissima dagli utenti, potesse essere fatta solo e soltanto tramite Google+.

Secondo le dichiarazioni del motore di ricerca il servizio viene chiuso anche perché il team che lo gestiva è stato pesantemente indebolito proprio per rafforzare Google+: in pratica i migliori sviluppatori, che avevano forte esperienza social, sono stati mandati a lavorare sul nuovo progetto, lasciando il vecchio Reader abbandonato a se stesso.

street view google

Il procuratore generale del Connecticut è riuscito a far condannare Google ad una multa di 7 milioni di dollari per la gravissima violazione della privacy di comuni cittadini messa in atto da Google attraverso i veicoli che fotografano e mappano le strade per fornire il servizio Street View.

street view google

In pratica i veicoli erano dotati di rilevatori di reti wi-fi, cosa che ha consentito a Google di creare una sua mappa privata (e utilizzata chissà per quali scopi) di tutte le reti wi-fi del paese. Una violazione della privacy di inermi cittadini attuata su vasta scala e con tecnologie software all’avanguardia, un altro esempio concreto dei rischi che tutti stiamo correndo a causa dello strapotere di un’azienda che nessuno pare voler arginare.

Il Connecticut è un piccolo stato americano ma il suo procuratore generale ha avuto la forza e il coraggio di andare fino in fondo: non solo è riuscito a imporre la multa, che per un colosso come Google in fondo rappresenta una cifra assolutamente ininfluente, ma ha anche imposto che l’azienda di Mountain View interrompa immediatamente la raccolta illegale di informazioni e, allo stesso tempo, dia avvio ad una campagna, su scala nazionale, per informare gli utenti sui rischi che si corrono lasciando le reti wi-fi senza protezione. Insomma, tutto è bene quel che finisce bene, e il procuratore si è comportato molto meglio dei tanti membri delle antitrust europea e americana che danni cincischiano sul problema Google senza avere il coraggio o la forza di fare nulla per cambiare le cose.

Molto italiana la reazione di Google alla condanna: ha diramato un comunicato in cui spiega di aver cominciato un programma di sensibilizzazione dei propri dipendenti sul tema della privacy. In pratica, sta dicendo Google, questo programma di raccolta delle rete wi-fi, condotto in maniera scientifica e centralizzata, con uso di apparati tecnologici all’avanguardia, è stato condotto all’insaputa di Google stessa che, da azienda all’avanguardia negli standard morali, si preoccupa subito di evangelizzare i dipendenti sul tema.

Nemmeno Scajola avrebbe saputo fare di meglio.

antitrust europea

L’antitrust europea ha sanzionato in modo pesantissimo Microsoft: più di 500 milioni di euro di multa sono comunque una punizione pesante, anche per una multinazionale ricca. La colpa del colosso di Redmond? Non aver dato la possibilità agli utenti, in maniera chiara e semplice, di utilizzare un browser alternativo a Internet Explorer sui PC che vengonio venduti con il sistema operativo Windows preinstallato.Insomma, una battaglia sacrosanta iniziata dall’allora commissario europeo Mario Monti si è conclusa positivamente per i cittadini consumatori e per i concorreti.

antitrust europea

Questo a prima vista. Se proviamo ad analizzare un po’ più a fondo la faccenda ci rendiamo conto che la punizione è decisamente esagerata: il mercato dei browser è ormai aperto, gli utenti sono sufficientemente smaliziati (almeno la maggior parte) da utilizzare altri browser e il prodotto targato Microsoft perde ogni giorno quote di mercato.
Giusto per fare un esempio, l’altro giorno ho segnalato un malfunzionamento di una pagina web quando la si visualizzava con Internet Explorer e qualcuno mi ha risposto chiedendomi come mai utilizzasi ancora tale browser…
Insomma, il mercato è sufficientemente libero e i consumatori vanno verso il prodotto migliore, senza necessità che qualcuno li guidi.

Con questo non voglio dire che l’attività dell’antitrust è sbagliata, voglio dire che attualmente sul terreno ci sono dei problemi decisamente più urgenti e sicuramente più gravi. Pensiamo ad esempio al conclamato monopolio di Google, che ormai domina incontrastato il mercato della pubblicità online, soffocando tutti coloro che si pongono in contrasto alla sua supremazia e lasciando le briciole a coloro che, invece, decidono di lavorare in partnership  con il Moloch di Mountain View.

L’abuso di posizione dominante che si è manifestato in numerose occasioni. Un esempio? Quando Google ha lanciato in fretta e furia il suo social network Google+, ha costretto tutti coloro che avevano un sito web ad iscriversi per consentire loro di usufruire del meccanismo dell’autorship, cioè per dichiarare al motore di ricerca la proprietà dei contenuti.

E se inizialmente Google aveva solennemente dichiarato che il collegamento con Google+ non avrebbe assolutamente modificato il posizionamento nei risultati di ricerca, adesso pare che quel collegamento conti qualcosa e in futuro conterà sempre di più.

Insomma, Google ha utilizzato la sua schiacciante dominazione nel settore dei motori di ricerca per imporre la sua presenza anche nel mondo dei social network, probabilmente terrorizzato dalla possibilità che Facebook potesse implementare iniziative serie nel mondo della ricerca, magari in partnership con Bing.

E si potrebbe continuare con esempi di questo tipo: ormai Google non è solo focalizzato sulla ricerca, ma ha posizioni di grande rilievo nel mondo dei social network, dei sistemi operativi mobile, nel mercato dei browser. Adesso sta addirittura per lanciare un dispositivo innovativo come i Google Glass. E quasi sempre le nuove iniziative dell’azienda di Mountain View sono lanciate facendo leva proprio sulla supremazia nel mercato della ricerca oltre che sulla potenza di fuoco dovuta all’immensa liquidità di cui l’anzienda dispone. E non è un caso che in borsa sta macinando record su record, una singola azione è arrivata a valere ben 800 dollari e secondo alcuni analisti potrebbe persino arrivare a 1000 dollari in breve tempo.

Probabilmente l’antitrust dovrebbe dire qualcosa a proposito della resistibile crescita di Google. Ma forse è impegnata con faccende risalenti agli ’90, troppo impegnata per fare qualcosa che sia utile ai consumatori digitali del XXI secolo.

google news

Gli editori dei giornali online hanno da anni un obiettivo dichiarato: farsi pagare da Google per la loro presenza all’interno di Google News. Un obiettivo che hanno in qualche modo raggiunto in Francia, dove il famoso motore di ricerca si è impegnato a versare un obolo ad un fondo per l’ammodernamento dell’industria editoriale (sa molto di piano quinquennale sovietivo e in effetti si vede che in Francia governa Hollande) e in Belgio dove i giornali hanno ottenuto 6,5 milioni di euro da Google.

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Ma perché i giornali ce l’hanno tanto con il motore di ricerca di Mountain View? La questione è molto semplice: i giornali in Europa hanno bisogno di soldi, molti, maledetti e subito perché i loro modelli di business non funzionano più.

I giornali online, infatti, hanno come fonte di introito la pubblicità: ma questa spesso non basta a coprire tutti i costi. Ci sarebbe anche la possibilità di far pagare gli utenti, anche micropagamenti, per articoli singoli o applicazioni, ma è una possibilità ancora in fase di sperimentazione. E comunque sicuramente non incontrerebbe il parere favorevole degli utenti, abituati ormai ad ottenere gratis informazione di qualità.

Dall’altra parte la crisi sta facendo crollare gli introiti pubblicitari e le vendite della carta stampata e anche i contributi pubblici (che ad esempio in Italia mantengono l’intero settore) potrebbero diminuire nel prossimo futuro. Tra l’altro i giornali tradizionali si ritrovano ad affrontare su internet la concorrenza di nuove iniziative che hanno costi decisamente più bassi (non hanno strutture pleonastiche ed elefantiache ma snelle ed efficienti) che offrono informazione di qualità in maniera gratuita. Gli editori si ritrovano quindi nella necessità assoluta di reperire contanti e si rivolgono al motore di ricerca di Mountain View, chiedendo di essere pagati per la loro presenza all’interno dell’aggregatore Google News.

Tuttavia, analizzando la pretesa ci si rende conto che non ha molti fondamenti. Per prima cosa bisogna ricordare che Google News è uno dei pochissimi prodotti del motore di ricerca di Mountain View che non ha annunci sponsorizzati. Questo significa che tutto il traffico viene rediretto sui siti dei giornali.

E qui viene il bello: dalle analisi del traffico, viene fuori che i siti di informazione ricevono da un quarto ad un terzo del loro traffico totale proprio da Google, mentre Facebook, giusto per fare un esempio, non arriva all’8%.

Dunque gli editori in fondo ci guadagnano dall’essere presenti su Google News. Un esempio? Personalmente assisto spesso a compra vendita di portali web, e la presenza sull’aggregatore di notizie made in Google fa lievitare sensibilmente il prezzo di un portale.

E in fondo se gli editori proprio non vogliono stare su Google possono chiedere al motore di non farsi indicizzare, è un procedimento facilissimo da eseguire. Ma non lo fanno, ovviamente, proprio perché non vogliono perdere questo traffico. Rupert Murdoch ci provò, qualche anno fa, a minacciare Google di far uscire il prestigioso Wall Strett Journal dai risultati del motore di ricerca. E Google rispose subito che era libero di farlo, ma che si preparasse a perdere almeno un quarto dei propri lettori.

Il motore di ricerca sta pagando dei prezzi tutto sommato simbolici, più che altro per non inimicarsi le dirigenze politiche che magari possano sbandierare davanti alle folle adoranti la loro vittoria sulla multinazionale estera “cattiva”. Dopo tutto qualche milione di euro per Google non fa la differenza.

In conclusione, la crisi dell’editoria non si risolve certo raccattando qualche spicciolo in questo modo: si risolve tagliando i costi di strutture elefantiache e bizantine, aumentando la produttività, accettando la sfida delle nuove tecnologie con lo sviluppo di applicazioni ad altissimo valore aggiunto per veicolare le notizie e magari vendendo anche le sedi storiche e prestigiose come vuole fare il Washington Post e come vorrebbero fare i manager di RCS con la prestigiosa (e inutile) sede di via Solferino del Corriere della Sera. Ma qui siamo in Italia e i sindacati, bontà loro, si oppongono.

monopolio google

A Mountain View, ultimamente, devono aver fatto l’abitudine a stappare bottiglie di champagne, di quello buono. Dopo aver festeggiato una trimestrale con il botto (e sicuramente anche lo scampato pericolo di una concorrenza seria e serrata da parte di Facebook), hanno brindato anche per il nuovo record della quotazione: il titolo dell’azienda è infatti segnato nella giornata di ieri un record assoluto, arrivando a superare quota 800 $ per azione.

Un valore elevatissimo, che porta la capitalizzazione totale della compagnia a 254 miliardi di dollari: uno dei maggiori colossi mondiali, senza ombra di dubbio.

monopolio google

Gli analisti spiegano questa fiammata sia con i dati ottimi della trimestrale sia con il dominio sempre più incontrastato di Google nel mercato della pubblicità online. Qualche esempio? EMarketer ha stimato che nel 2012, il motore di ricerca di Mountain View abbia incassato ben il 40% del totale della pubblicità digitale.

Tenuto conto della moltitudine dei player attualmente sul mercato, si capisce che si tratta davvero di una cifra clamorosamente alta: probabilmente nessun mercato, in nessun momento della storia dell’uminità, è stato dominato così pervasivamente da un singolo attore come succede oggi con il mercato dell’advertising online. Addirittura, per la quota di pubblicità inserita nei risultati di ricerca, si stima che Google abbia una quota pari a 75% negli Stati Uniti. E in altri paesi, come l’Italia, questa quota è ancora più alta.

E questo dominio non è sicuramente positivo, per nessuno, tranne che per Google ovviamente: ne abbiamo già parlato più e più volte me è sempre bene tornare su un argomento così importante.

Gli analisti aggiungono anche che Google è favorita dall’espandersi della pubblicità sui dispositivi mobili, che in questi mesi sta conoscendo un vero e proprio boom. Ovviamente anche in questo settore la compagnia di Mountain View detiene un vero e proprio monopolio.

Insomma, Brin e Page hanno costruito un impero economico solidissimo e sempre in espansione e non hanno ancora intenzione di fermarsi. La notizia del giorno, oltre al record della quotazione, sta nel fatto che Google ha deciso di aprire dei veri e propri punti vendita, sulla scia di quanto fa da molto tempo Apple, per promuovere i suoi prodotti: dai cellulari della serie Nexus (che non hanno mai avuta grossa fortuna, per la verità), fino agli occhiali Google Glass e ai tablet Android.

Probabilmente a Mountain View stanno pensando che i flop sostanziali nel settore hardware che fino ad ora sono stati inanellati uno dopo l’altro siano colpe dei partner tecnologici che non hanno saputo (o voluto) spingere i prodotti nel migliore dei modi. Ed ecco che Google ha deciso di fare tutto da sola: ha comprato la divisione mobile di Motorola e si è dotata quindi di una capacità produttiva in proprio e adesso si appresta ad accedere direttamente al mercato consumer con i nuovi Google Store.

accordo tra google e apple

Negli ultimi mesi ci siamo abituati a pensare a Google e Apple come due grandi Campioni che si affrontano, senza esclusione di colpi, per il dominio del mercato dei dispositivi mobili. Tuttavia Google e Apple sono molto meno nemici di quanto si possa pensare: fino a qualche anno fa esistevano pesantissimi intrecci nei consigli di amministrazione. E ancora oggi le due grandi compagnie fanno affari insieme. E’ un dato di fatto noto, ma oggi se ne parla perché uno studio di Morgan Stanley ha quantificato in ben 1 miliardo di dollari la cifra che quest’anno Google pagherà a Apple affinché il suo motore di ricerca sia quello impostato di default su ogni dispositivo venduto.

accordo tra google e apple

I termini dell’accordo sono i seguenti: Google paga  3,3 dollari (con la prospettiva di arrivare a 4,4 entro 3 anni) per ogni dispositivo iOs che viene venduto con il suo motore di ricerca impostato come default. Inoltre, Apple incassa il 75% degli introiti pubblicitari dovuti ai click dei suoi utenti su annunci sponsorizzati.

Proiettando queste cifre rispetto alle previsioni di vendita, si capisce bene come la torta degli annunci pubblicitari porta ad Apple una fetta di 1 miliardo di dollari all’anno. E’ evidente che i profitti più grandi sono quelli di Google che dimostra di saper dominare il mercato con una politica commerciale che potremmo definire aggressiva (anche se ci vengono in mente altri aggettivi che non usiamo).

E gli utenti? E gli sponsor?

E’ evidente che a pagare per i profitti di Google & Apple sono proprio gli sponsor che sono costretti a pagare un prezzo superiore per singolo click proprio perché Google deve generare sufficienti revenue per renumerare Apple. E non è un caso che da qualche tempo a questa parte, gli inserzionisti non possano più decidere quale sia la rete su cui far visualizzare i propri annunci, ad esempio escludendo completamente la rete mobile. Google vuole monetizzare al massimo il traffico mobile e quindi punta a trascinare quanta più pubblicità possibile proprio su questo tipo di dispositivi. E non importa se diversi studi molto approfonditi hanno dimostrato che la pubblicità su questi dispositivi converte molto meno, in termini di vendita, rispetto a quella mostrata su un PC.

Di fatto questo atteggiamento aumenta sensibilmente i costi sostenuti dagli inserzionisti, impoverendo decisamente l’ecosistema digitale. E anche per gli utenti, che si trovano a dover utilizzare un sistema operativo impostato per default, le cose non sono certo tutte rose e fiori.

Quello che lascia stupiti è il comportamento piuttosto passivo dell’antitrust rispetto a questi comportamenti: anni fa ci fu un turbinio di cause, con multe pesantissime, contro Microsoft, accusata di far utilizzare il proprio browser Internet Explorer di default sui pc venduti con sistema operativo Windows. Da notare che da Internet Explorer Microsoft non guadagnava (e non guadagna) assolutamente nulla. Viceversa Google monetizza quasi tutte le ricerche fatte attraverso il suo motore, mediante i click sugli annunci sponsorizzati.

Un’ultima annotazione: la forza di Google è stata per anni nella preferenza da parte degli utenti. Gli utilizzatori hanno preferito e scelto le tecnologie di Google perché funzionanvano meglio, non perché erano imposte o perché se le ritrovassero prempostate sul proprio dispositivo. Se adesso il colosso di Mountain View deve spendere 1 miliardo di dollari per imporre il proprio motore, forse qualcosa sta succedendo….

facebook perde iscritti

Facebook ha compiuto i nove anni di età, che per un portale internet sono l’età della maturità, e ha festeggiato in pompa magna il fatto di aver da poco superato il primo miliardo di utenti registrati. La trimestrale, di cui abbiamo parlato in questo articolo, è stata tutto sommato positiva e ha segnato una crescita di utenti anche sui dispositivi mobili.

facebook perde iscritti

Ma forse Facebook ha toccato il massimo della sua inflazione, il picco, e adesso inizia a ritracciare. Alcuni dati preoccupanti per il grande social network arrivano dagli USA, dove il portale tecnologico CNET ha fatto un’indagine che rivela come il pubblico si stia iniziando a stancare, sia perché non trova quello che vorrebbe sia perché ha altro di meglio da fare.

E’ un campanello di allarme? Probabilme Facebook non deve sottovalutare il problema: ci sono molti esempi, nella pur breve storia di internet, di servizi che avrebbero dovuto cambiare la storia e che invece si sono rivelati dei miseri fuochi di paglia.

Pensiamo, giusto per fare un esempio, a Second Life: sembrava che il sito di realtà virtuale doveva sconvolgere per sempre le nostre vite, tutte le aziende iniziarono una corsa per avere una propria presenza su Second Life, spendendo anche budget consistenti. Sembravano investimenti con un buon ritorno, dopo tutto i giornali sparavano ogni giorno una notizia riguardante questa applicazione, e spesso anche in prima pagina. Ma adesso che cosa resta di Second Life? Niente, assolutamente niente.

E vogliamo un altro esempio? MySpace. 5 anni fa MySpace era uno dei siti internet più frequentati, Rupert Murdoch lo acquistò ad un prezzo spropositato e riuscì subito dopo a strappare a Google un contratto sontuoso con introiti garantiti per la pubblicità.

Che fine ha fatto MySpace? E’ stato chiuso e ha riaperto solo da poco (abbiamo raccontato qui anche questa storia). Insomma, su Internet non c’è nulla di eterno, se non si soddisfano le esigenze degli utenti e delle aziende inserzioniste (spesso si dimentica che questi servizi costano e qualcuno deve pur pagare) si finisce presto al capolinea.

Facebook per il momento non corre questo rischio: è ancora il social network con più iscritti e più utilizzato al mondo, ma se vuole veramente iniziare a guadagnare deve dare una sterzata forte. Deve riuscire ad interessare gli utenti, a fornire loro informazioni e connessioni utili. Sembra invece che stia facendo esattamente il contrario, visto che sta riempiendo gli stram degli utenti di post sponsorizzati il cui interesse, almeno per me, è pari a 0.

E nel frattempo il grande concorrente di Facebook, Google+, cresce a ritmi vertiginosi. Certo non sarebbe una bella situazione avere un unico player che domina sia nella ricerca che nel social, ma a Google evidentemente sanno fare le cose per bene. E, tra l’altro, Google+ non ha l’esigenza di monetizzare visto che può attingere alle praticamente illimitate risorse di Mountain View.

Come sarà internet fra 5 anni non lo sappiamo, ma se Facebook vuole ancora essere tra i protagonisti deve fare un cambio radicale e lo deve fare adesso, prima che sia troppo tardi.

 

crisi yahoo

Le autorità antitrust USA e Europee devono dormire sonni tranquilli, molto tranquilli. E’ questa l’unica spiegazione (o almeno la meno maliziosa) per spiegare l’inattività dei guardiani del libero mercato nei confronti di Goolge.

Non solo il motore di ricerca mette in atto pratiche che vanno molto al di là della correttezza nella gestione dei suoi indici e della pubblicità contestuale, ma ormai ha un atteggiamento complessivo spiccatamente monopolistico.

L’ultimo esempio è davvero eclatante: Yahoo e Google, i due ex grandi nemici, hanno appena firmato un accordo per cui Google fornirà annunci contestuali per i contenuti di Yahoo. In pratica Yahoo si piega ad inserire gli Adsense nei proprio contenuti, esattamente come potrebbe fare un ragazzino che apre un blog. E qui le riflessioni che partono sono due.

La caduta di Yahoo

crisi yahoo

Yahoo è una delle più antiche internet company e una delle più blasonata. Su Yahoo troviamo di tutto: motore di ricerca, contenuti di vario tipo, applicazioni, persino un sito di foto sharing come Flickr, che ha anticipato di anni la moda di Instagram. Eppure Yahoo ha sempre avuto problemi a monetizzare e fare profitti.

Yahoo ha in casa un vero e proprio tesoro di contenuti, tecnologie, siti web ma non riesce a fare profitti probabilmente perché non ha mai avuto la barra dritta come Google che, malgrado le apparenze, si è sempre avventata sui mercati con l’intenzione di occuparli militarmente.

Anche nelle strategie aziendali Yahoo è stata estremamente ondivaga: ha fatto una montagna di acquisizioni, spesso rivelatesi inutilmente onerose, ha stretto accordi con Microsoft e poi con Google, ha cambiato i vertici un numero infinito di volte.

E probabilmente anche l’organizzazione interna è carente. Ricordo, ad esempio, che alcuni anni fa provai ad acquistare pubblicità su Yahoo per conto di un mio cliente. Fu un incubo. Mentre comprare pubblicità da Google è semplice ed immediato, con pagamento automatico con carta di credito e senza intermediazioni umane, con Yahoo tutto è inutilmente complicato (o almeno era perché dopo quell’esperienza non ci ho più riprovato).  Arrivarono persino a smarrire alcune fatture e ad inviarne altre a doppio al mio cliente. Probabilmente anche per questo Yahoo attualmente non riesce a vendere da solo la sua pubblicità ed è costretto a ricorrere al suo nemico per riempire i suoi spazi nel migliore dei modi.

Lo strapotere di Google

Google, al contrario di Yahoo, è una compagnia ben gestita e ben organizzata. Ha saputo capitalizzare bene le sue risorse e le sue tecnologie oltre che il successo indiscusso che ha riscosso presso il pubblico. Dobbiamo dire che i servizi Google funzionano bene, su questo non ci sono dubbi. Il problema di fondo è che, una volta raggiunto il successo, Google sta cercando di espandere il proprio business e i propri profitti, il che è legittimo, ma lo sta facendo cercando appunto di annientare la concorrenza. E se ha messo in ginocchio i piccoli publisher indipendenti con gli aggiornamenti algoritmici, adesso prova anche ad impossesarsi degli spazi pubblicitari di uno dei suoi principali concorrenti.

Il sonno dell’antitrust genera i mostri monopolistici.

youtube google

Si può dire che YouTube, il popolare sito di condivizione di video, è uno dei player principali dell’intero panorama del web. Può contare su 300.000 milioni di iscritti, molti dei quali non si limitano a visionare i filmati presenti ma sono produttori in prima persona. Il sito è uno dei più visitati al mondo e, da quando è stato acquistato da Google, ha anche intrapreso una politica di advertising piuttosto aggressiva. Tra l’altro è stata anche inaugurata una politica di condivione dei ricavi, simile a Google AdSense, che consente a chi produce video di qualità elevata di guadagnare dei soldi grazie ad una percentuale sulla pubblicità inserita nei video.

youtube google

Sappiamo molto bene quanto la compagnia di Mountain View sia attenta alla monetizzazione e, in questo caso, non possiamo certo biasimarla: un servizio internet ha un costo, di gestione e di sviluppo, e questo costo deve essere coperto o dalla pubblicità o dagli utenti paganti.

Ebbene, se YouTube fino ad oggi ha vissuto proprio sfruttando la pubblicità, sta pensando anche di adottare l’altro modello e cioè far pagare gli utenti.

Ovviamente i video prodotti in modo amatoriale rimarrebbero completamente gratis (e con la pubblicità) mentre ad alcuni produttori professionisti, secondo le indiscrezioni, sarebbe consentito aprire dei canali a pagamento, con contenuti di elevata qualità.

Il costo per la sottoscrizione si dovrebbe aggirare a pochi dollari al mese per ciascun canale e il modello di business prevede una condivisione dei guadagni più o meno al 50% tra i produttori di contentui e YouTube.

Secondo alcune indiscrezioni non ancora confermate citate dal Wall Strett Journal, sarebbero state contattate alcune case di produzione che attualmente lavorano per la tv via cavo, a cui sarebbero state fatte delle ottime offerte economiche.

Considerando, poi, che sarà possibile rendere a pagamento anche eventi live, si va delineando una strategia di attacco molto precisa: Google  dopo aver preso il controllo del mercato più ricco di internet, quello della pubblicità contestuale, vuole anche entrare in forza nel mercato della TV.

L’esperimento iniziale sarà limitato, i canali a pagamento saranno circa 25, non più. Ma se i risultati saranno buoni probabilmente sasrà esteso ulteriormente. Dopo tutto è un segno dei tempi, quello dei contenuti a pagamento.

Molti giornali online stanno decidendo di farsi pagare la lettura de i migliori contenuti, rendendo disponibili a tutti solo alcuni stralci iniziali. E non è un caso, probabilmente, che Google sia attivamente impegnata nello sviluppo di soluzioni innovative proprio per i micro pagamenti di contenuti editoriali.

Probabilmente quello che si può fare per gli articoli di giornale, hanno pensato a Mountain View, si può fare anche con i video di YouTube.  Tra l’altro l’utenza di fascia alta, quella che tipicamente potrebbe sottoscrivere questo tipo di servizio, è già stata educata da Apple, grazie al suo iTunes, a pagare piccole somme per ottenere contentuti.

Il futuro probabilmente è questo, staremo a vedere gli esiti dell’esperimento. E mentre a Google pensano a sviluppare nuovi modelli di business, Facebook si diletta a giocare con i grafi.

Secondo gli analisti che hanno provato la nuova tecnologia graph search, che è disponibile ai beta tester negli USA, l’uso più promettente che sarà fatto dagli utenti sarà lo stalking. Come pensa Mark Zuckerberg di monetizzare tutto questo è davvero un mistero. Ed è forse questa la differenza più forte con il Moloch di Mountain View: a Google hanno sempre chiaro che un servizio deve avere un modello di business chiaro, anche se inizialmente può essere privo di profitti, nel medio periodo i profitti ci devono essere e devono essere elevati.

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